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Testo di Maurizio Calvesi nel catalogo Pascali, Galleria Alexandre Jolas, Milano, 1970

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L'opera di Pino Pascali apre su un momento critico delle ricerche contemporanee, quello che vede staccarsi, come due pellicole che sembravano invece una sola, il campo dell'arte e il campo dell'estetico. Nascono situazioni nelle quali questi due campi non debbono più necessariamente combaciare. L'estetico tenta di uscire dai confini dell'arte, di infiltrarsi nella vita, nel comportamento, nel costume, di farsi pura provocazione, o lotta, o filosofia; l'arte, d'altro canto, tenta di uscire dai confini dell'estetico: non si fa arte solo per una finalità estetica, ma, e soprattutto, per accelerare il ricambio dei processi mentali, per alimentare una nuova logica che non sappiamo quale possa essere, ma che intanto, mentre è in gestazione, sembra ghiotta di mito. L'arte, come il comportamento, sono dei mezzi per negare delle condizioni esistenti e per invocarne altre imminenti, o che si vorrebbero imminenti; e mentre l'arte tende al comportamento, il comportamento tende all'arte, nel senso che la componente estetica viene riconosciuta come essenziale.

Pino Pascali, come personaggio e come artista, ha incarnato queste situazioni divergenti-convergenti delle ricerche attuali. Bisogna dire, tuttavia, che in Pascali la convergenza è stata più forte della divergenza: convergenza di estetico e di artistico in una testimonianza che è ancora quella dell'«opera», dell'opera che nasce per situarsi nel tempo, per continuare a parlare al di là dell'occasione; e soprattutto, questo parlare è ancora affidato all'immediatezza dell'immagine, all'«astanza» direbbe Cesare Brandi. Forse per questo altri giovani impegnati in ricerche puramente processuali e mentali possono sentirlo lontano, sebbene Pascali, con la manipolazione dell'acqua, della terra, della paglia, abbia anticipato tanti spunti anche per queste ricerche; meno lontano dovrebbero sentirlo, almeno per la forza eroica di dilatazione della sua energia immaginativa, quanti seguono il metro espanso della «Land Art».

Perfette forme simboliche di questa iperbolica capacità, che fu propria di Pascali, di violentare lo spazio fisico per tramutarlo nella dimensione del fantastico, sono gli squali che sbucano la parete. La ragione è spazio, prospettiva, sistema; il mito e l'immaginazione sono massa centrifuga, in espansione. Questo è stato, per Pascali, il senso dell'environment: non ambiente avvolgente, ma ambiente che si dilata, e a questo risultato erano intesi tanto gli squali spaccati in due, con forte evidenza fisica, quanto i moduli additivi dei suoi mari, con felice suggerimento mentale. Con gli inizi del 1967 la sua inquietudine e febbre di fare divennero una grande, dichiarata smania che si proiettava al di là delle opere. Il mare d'acqua colorata in diverse gradazioni d'azzurro, i «canali d'irrigazione», cioè ancora contenitori d'acqua di forma rettangolare allungata alternati a tegole ricoperte di terra allusive alle zolle dei campi arati; le pozzanghere, realizzate sempre con l'acqua, e i metri cubi di terra (strutture cubiche rivestite, esposte, con le pozzanghere, già nel maggio);  e poi nel '68 i blocchi di paglia compressa, i ponti e le trappole in paglia di ferro, i grandi castelli di «carte» foderate di pelliccia, i tappeti, le liane, i nidi, i cesti: tutte le cose che arrivò a fare non rappresentavano per lui che una modesta parte dei suoi progetti e delle sue aspirazioni;  una esemplificazione, la compressa manifestazione di un grande e assurdo desiderio, che era di mettere le mani su interi ambienti geografici, di manipolare la natura.

Ricordo bene i progetti spericolati che nella primavera del '67 mi aveva recitato a filastrocca; tra i tanti, con più insistenza ricorreva quello di colorare il mare e di tracciarvi dei segni. Non ne resta documentazione, ma fu bene in seguito a questi discorsi che nel catalogo della mostra di ambienti tenutasi a Foligno nel giugno del '67 (dove Pascali espose appunto per la prima volta il suo mare), io riportai degli enfatici brani di Marinetti, che aveva pensato ad erudizioni vulcaniche artificiali, a colossali «trasfigurazioni» liriche della realtà, e infine a «ristrutturare» la natura: «Riplasmiamo il mare con nuovi tipi di onde! Nuove molle d'acqua, nuove spirali d'acqua con progressione aritmetica e progressione geometrica, botole ellittiche di acqua altalenante. Sopra molti triangoli d'acqua equilateri avremo nuove curve (…) Un organo marino modulerà le forme del mare e del vento mediante tubi verticali, fori, botole e tunnels elastici graduati. Riplasmiamo il cielo! Architetture espansive e polimateriche si uniranno alle nuvole, alla pioggia, alla neve, alla nebbia, alla tenebre».

Non erano ancora nate (almeno ufficialmente, e considerato il diverso carattere di precedenti esperienze come quelle di Manzoni), le cosiddette «azioni», presto inscenate da artisti di diversi paesi con più o meno spettacolari interventi sulla natura, o lasciate allo stato di progetto o come tali esibite, Pascali ha anche eseguito in chiave paradossale, poco prima di morire, nel luglio del '68, una di queste azioni, che è stata filmata da Luca Patella.

Tutto questo è necessario sapere non per rimpiangere ciò che Pascali non ha fatto, ma per meglio apprezzare  e comprendere quello che ha fatto. L'enfatico e il favoloso sono componenti, infatti, della sua poetica di emulazione della natura, in cui si confondono un Pascali bambino  e un Pascali gladiatore; componenti altrettanto importanti sono l'energia plastica e la forza strutturale. Dall'incontro di questi due poli nasce, in profonda unità, la sua opera dai molteplici aspetti. Costante è la robusta costruzione, la forma come bloccata nel suo abnorme impeto di crescita; costante è la ricerca del favoloso, che andava sempre più orientandosi verso la dimensione «primaria» dell'infanzia e del selvaggio. I suoi ultimi oggetti contenevano addirittura un riferimento a culture primitive, ricontemplate attraverso una leggenda dell'infanzia, quella di Tarzan; furono cioè una manifestazione esplicita di quel «pensiero concreto», o mitico, di cui Pascali è stato nella sua breve stagione uno degli interpreti più maturi.

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