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Alberto Boatto | Pascali oggi

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Alberto Boatto, Pascali oggi

in Pino Pascali, catalogo a cura di Anna d'Elia, Edizioni Laterza, Bari, 1983


Mi si chiede di parlare della presenza di Pino Pascali oggi. Non ne scorgo traccia. È molto raro incontrare un'opera dell'artista in una mostra o in una vendita all'asta. Le gallerie che hanno promosso il suo lavoro o hanno chiuso o si occupano di altro. Gli artisti sull'odierna cresta dell'onda si interessano certamente dello spazio, ma si tratta nel loro caso della superficie della tela, non già dello spazio reale dell'ambiente, ed impiegano con ostentazione proprio quei pennelli che Pascali aveva scartato con insofferenza. Il gruppo di amici di cui faceva parte attiva Pascali, si è dissolto da parecchi anni e quando capita di incontrarci, mi sembra, non parliamo di nulla. E tanto meno di Pascali.
Mi troverei dunque costretto a ricorrere alla facoltà e al meccanismo tra i più impacciati in me e difficoltosi, la memoria, se, per fortuna, la bella rivista «A.E.I.O.U.», proprio nel suo ultimo numero, non pubblicasse a tutta  pagina e a colori una tempera di Pascali che avevo dimenticato. Raffigura un grosso martello intento a conficcare con risolutezza i chiodi componenti la scritta: «le arti». Sta ribattendo sul chiodo della vocale finale, proprio per mettere pesantemente i puntini sugli i.
Ecco, questo disegno inaspettato mi riporta in pieno la presenza e il senso di Pascali. E prima di tutto il suo atletismo. Qualcosa a metà degli anni Sessanta si era aperto – o si era creduto o sognato o interpretato che  si fosse aperto – nel cuore della società supertecnologica e funzionale, al centro dell'universo metropolitano, e Pascali ne aveva tra i primi intravisto le crepe e con un gesto fra lo sfidante e l'atletico aveva spalancato le braccia per allargare ancor più la spaccatura, per  impedire che si richiudesse.  Ci troviamo di fronte, se si vuole, al tipico gesto di un eroe fondatore che indica il passaggio agli altri fra le strettoie di due scogli o di due rocce. In più in Pascali all'atletismo si univa un aspetto di operosità che, per continuare la metafora mitologica, assumeva proprio l'aspetto dell'operosità di un demiurgo. Pascali è stato un piccolo demiurgo – intendo sul piano del mito non su quello dell'arte - , un demiurgo  affaccendato ed ingegnoso, che si è affrettato a trarre profitto dalle crepe e dagli improvvisi spazi che si è trovato davanti. Se il suo lavoro ha seguito un disegno strategico, esso è consistito nel trasformare la spaccatura in un territorio e nell'edificarsi sopra un mondo corrispondente alla sua immaginazione surriscaldata e traumatica. Da questo disegno, che penso presente in Pascali, discendono alcune costanti del suo lavoro. Una delle più manifeste è il senso dello spazio e la preoccupazione di occuparlo. Le creature che popolano il suo universo, dovranno possedere presenza indubitabile ed evidenza plastica, così vengono spinte ad ingigantirsi, a dilatarsi. Stanno nello spazio e lo ammobiliano con la totalità delle tre dimensioni di cui i mostrano dotate. Scorgendole tanto voluminose ed ingombranti dovremo convincerci ella loro esistenza, che la «ricreazione del mondo» non rappresenta un miraggio, una illusione, unicamente una congrega di fantasmi scaturiti dall'insonnia o dal desiderio.
Si sa che Pascali, in sintonia con Ceroli, con Pistoletto e qualche altro esponente della stessa generazione, è tra gli artisti che spostano il luogo della operazione artistica dalla frontalità della parete allo spazio ambientale. Il modo di invadere lo spazio da parte di Pascali resta molto caratteristico: aggressivo, invadente, portato a lasciare poco margine di manovra, anche fisico, allo spettatore, e a sfondare qualsiasi limite. Un delfino, con la testa e il tronco appesi ad una parete, continua con la testa e il tronco appesi ad una parete, continua con la testa sull'altra parte della medesima parete. Il mare si è dilatato nell'ambiente sino al punto da estromettere lo spettatore. Un'altra costante di Pascali è il senso molto spiccato della forma definita, chiusa ma non conclusa, accompagnato da una grande disponibilità nel confronti di qualsiasi materiale come nei confronti di qualsiasi tipo di tecnica, purché fosse una tecnica artigianale, ludica, do it yourself, quale l'aeromodellismo o il bricolage. È noto che il demiurgo non è il dio primo, bensì il dio cui è affidato il compito subalterno di formare il mondo, e come il demiurgo prende la materia che trova a portata della sua mano, così Pascali prende i materiali, gli oggetti già confezionati e persino già logorati dall'uso, da quell'odierna entità superiore e strapotente che è rappresentata dall'industria. Solo quando è passato dai materiali alle materie prime, all'acqua e alla terra, ha tentato di sottrarsi alla tecnica, come nel giro degli stessi anni ha fatto Jannis Jounellis. Il senso della forma di Pascali a tutto tondo, tridimensionale, monumentale, sfiora a volte, per manifesta provocazione, i margini dell'enfasi.
Pascali si caratterizza anche per un'assenza – o una contraddizione - : l'assenza della dimensione tempo. Come maggiore precisione, è la sua opera, l'attrezzo o l'animale, che, mancando di agilità e di movimento, non possiede tempo – lo stesso mare, nella versione di tela bianca come in quello di vasche d'acqua, mi appare nel ricordo immobile (morto?) -, mentre nell'uomo Pascali è forte il sentimento del tempo, spinto fino alla fretta, all'ansia che mozza il fiato. Mentre dunque preserva la forma dalla pericolosità e dalla minaccia del tempo, lascia che il tempo trapassi in lui oppure lo autorizza ad intervenire, ma soltanto ai margini della forma, dove si manifesta come evento, azione, gesto, comportamento (teatro). Fondamentalmente quel demiurgo per artisti, per hippy e marginali che si agita in Pascali intuisce che il tempo concesso per la creazione è molto scarso, e in tale emergenza decide di puntare tutto sullo spazio che, con la sua solidità, è capace di dare certezza, di allontanare per un istante l'affanno. Sta lì, ci si può appoggiare o camminarvi sopra. Pascali apre e chiude in fretta cicli tematici e creativi; lascia che il tempo lo consumi al suo interno con la febbre che lo muove a fare, a manipolare, a costruire.
Bisognerebbe ora dire quale è la forza che sollecita la sua creatività spaziale, formale e monumentale, ed è ciò che è stato più volte indicato. È l'immaginazione, il desiderio, il sogno, colti in un movimento regressivo che si spinge in tre dimensioni concomitanti: sul piano biografico, o autobiografico, in direzione dell'infanzia; sul piano antropologico, in direzione del selvaggio; sul piano infine della materia in direzione degli elementi primi che sostengono l'impalcatura del mondo, l'acqua e la terra. Il fanciullo e il selvaggio, la sognante, sfrontata e aggressiva marginalità stringono un patto allo scopo di sconfiggere la grande metropoli. Che resta New York, la cui macchina gigantesca, proprio in questa stagione, sta battendo con difficoltà in tutti i settori, compreso quello dell'arte. (Sono gli anni in cui si sta smorzando la grande spinta della Pop Art e del New Dada, per quanto quest'ultimo, traboccante ed impuro come è, disponga ancora di qualche buona carta da mettere in gioco).

Ma ciò che a me interessa veramente è fare precipitare il discorso, dare un nome a quelle forze che, minacciandola e contrastandola, marginano l'avventura del demiurgo. Prima di tutto è la forza negativa del vuoto, che, penetrando nell'universo di Pascali, trapassa all'interno di ogni sua creazione. La certezza della forma appare costantemente minata dai materiali effimeri, improvvisati e troppo deteriorabili con cui è stata costruita. Poi è la credibilità, o il grado di credibilità, posseduto dalle sue presenze che pure vogliono imporsi e convincerci. Non disegnano, è vero, un miraggio, m a non possiedono nemmeno la sicura qualità di quel mondo reale che si propongono di sconfiggere. Propriamente  sono finzione, spettacolo, gioco serissimo, falso, il cui luogo di riferimento, quasi un fulcro magnetico, tende a diventare con sempre maggiore forza lo studio cinematografico o televisivo con tutto il parcheggio delle attrezzature sceniche.
Nella tendenza a trasformare l'arte visiva in spettacolo, in esibizione clamorosa, Pascali ha dato un notevole contributo. È molto più facile mettere in crisi lo spazio che scalfire i margini della finzione. Così il demiurgo non ha ricreato il mondo, lo ha solo finto, magari lo ha mimato, come, per conferirgli ancora più presenza e maggiore convinzione, ha fatto l'ultimo Pascali; tuttavia l'arte del mimo – l'arte del comportamento – non è affatto l'arte della vita ma della finzione.
Una traccia di turbamento, un'ombra di morte fino ad una sua diretta imprimitura, mi sono sempre parse presenti nell'intera sua opera. Forse con maggiore chiarezza queste riescono a condensarsi nel bianco e nella vulnerabilità dei suoi animali giganteschi ma decapitati, mutilati, privi di testa o di arti. In questo grandioso, candido serraglio il Neo-classicismo, che affiora sempre come un sogno funebre di perfezione, torna a rivivere, ma in una sostanza fragilissima, non nella durezza del marmo ma nella tela sostenuta da un semplice scheletro di legno. Durante la sua lunga agonia nella camera di rianimazione, il suo pesante corpo sbiancato della morte somigliava sensibilmente al corpo di un eroe della statuaria neoclassica, e quando è morto, è stato molto pianto. Alla lettera e metaforicamente. Una generazione che stava per toccare la soglia della maturità o che l'aveva superata da poco, intuiva che con Pascali finiva tutto un mondo di inquietudini e di attese senza volto. Doveva in verità ancora esplodere quel mondo, ma Pascali lo aveva per molti aspetti anticipato, traversato e  concluso con la sua fine, dando così un suggello definitivo a quella fretta che lo aveva sempre divorato. Ora, se ci ripenso, mi sembra che il martello raffigurato nella tempera possa anche ribattere con colpi funebri i chiodi di una bara. Se Pascali fosse ancora vivo oggi avrebbe quarontotto anni.

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